Autore Topic: Intervista al M° Rendine  (Letto 1345 volte)

Pamela

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Intervista al M° Rendine
« il: 19 Maggio 2009, 20:32:53 »
La musica la carità e le tende
di Fabio Cavallari



Gli studenti del conservatorio come i reietti della mensa dei poveri dell’Aquila. Il maestro Sergio Rendine racconta perché non di soli mattoni vive la ricostruzione


È già trascorso un mese e mezzo dal quel fatidico 6 aprile che ha sconvolto l’Aquila, distrutto case e monumenti, tolto la vita a uomini e donne. Accanto alle necessità stringenti, ai primi soccorsi, ora si fa strada tra la gente d’Abruzzo il bisogno di tornare a riassaporare quella normalità che il sisma si è portato via in una manciata di secondi. I luoghi dell’incontro, quelli della solidarietà giornaliera e poi ancora la cultura, la bellezza, la passione per l’arte, la musica, lo studio. Espressioni della realtà apparentemente distanti mille miglia tra loro si sono incontrate in un comune destino: la distruzione. È successo anche alla mensa dei poveri di padre Quirino Salomone, rettore della basilica di San Bernardino, e alle sale del conservatorio Alfredo Casella dell’Aquila. Inagibili. Da una parte i miserabili che anche prima del 6 aprile non avevano nulla se non quel luogo dove andare a recuperare un pasto caldo, dall’altra gli studenti e i docenti dell’istituto musicale, abituati a passare lunghe ore a contatto con la bellezza che eleva l’animo e lo spirito.
Reietti e musicisti legati insieme dal filo rosso del disastro. Ma anche dalla presenza di un uomo, Sergio Rendine, figura di rilievo del conservatorio dell’Aquila, considerato tra i più importanti compositori del nostro tempo e non solo in Italia, tanto che lo Stato della Città del Vaticano ha commissionato proprio a lui l’unica opera in celebrazione dell’anno paolino, la cantata sulla figura di san Paolo che sarà trasmessa in mondovisione il prossimo 26 giugno. Il maestro Sergio Rendine, napoletano di nascita ma abruzzese d’adozione, immediatamente dopo la violenta scossa del 6 aprile, si è attivato in prima persona affinché i suoi studenti non venissero lasciati soli.

Maestro, cosa è successo agli studenti del conservatorio dopo il terremoto?

Ufficialmente l’anno scolastico è stato dichiarato chiuso il 4 aprile, ma io e altri docenti, ci siamo attivati per garantire una continuità didattica ai ragazzi che volevano proseguire le lezioni. Io ho messo a disposizione la mia casa a Chieti, un collega, Paolo Cerasoli, ha trovato un convento a Roma dove proseguire le lezioni di organo. Per un conservatorio è praticamente impossibile adattarsi ai container, perché non è una scuola fatta di banchi, ma di strumenti musicali preziosi che non possono essere esposti alle intemperie. Come è facile comprendere non tutti gli alunni si sono ritrovati nelle condizioni di spostarsi perché hanno perso praticamente tutto, case, macchine, soldi. Il nostro gesto ha un duplice significato: innanzitutto permettere ai ragazzi di sentirsi vivi e non abbandonati, e in seconda battuta evitare che altre strutture si accaparrino alunni e classi. Il conservatorio dell’Aquila è distrutto ma noi abbiamo deciso di non fermarci, di continuare in qualsiasi condizione. Ora stiamo cercando, anche con l’aiuto del vescovo, dei locali adatti allo scopo.

Cosa significa dopo una tragedia come quella abruzzese, continuare e mantenere alto il livello di passione per la musica, l’arte, in definitiva per la bellezza?

Qualcuno sottolinea che prima bisognerebbe occuparsi delle case e dei bisogni primari. È vero, ma non dobbiamo dimenticare che l’Aquila era una città d’arte, non solo architettonica, ma arte viva. Io ho studiato all’Aquila ed ho scelto questa città proprio perché c’erano maestri straordinari e uno dei migliori Conservatori d’Italia. La connotazione esistenziale di questa città è l’elemento culturale.

In un momento come questo quanto conta il legame tra la cultura “alta” e la quotidianità delle persone?
Una delle prime testimonianze che è necessario trasmettere è proprio quella di mantenere accesa la fiaccola vocazionale di questa città, fatta d’arte, cultura e conservazione delle tradizioni. Qualche divinità ha voluto distruggere tutto ma ora deve fare i conti con la nostra anima. L’aquilano è un uomo che può apparire scontroso, un po’ montanaro ma ha una grande dignità interiore, una coscienza profonda delle proprie radici. Ogni cittadino sa cos’è, cosa è stata e cosa rappresenta questa appartenenza. Oggi tutta la città è unita attorno a queste macerie provvisorie. È naturale, per chi veniva da fuori per studiare o lavorare, la tentazione di fuggire, ma il nostro compito è quello di legare tutte queste persone al cuore della città. La nostra cultura va difesa contro ogni tipo di avversità.

Accanto all’impegno per la cultura lei ha prestato grande attenzione alla vita degli ospiti della Mensa di Celestino, un luogo a cui ogni giorno si rivolgevano persone provenienti da tutto il territorio provinciale. Come è nata questa affezione?
Ho conosciuto padre Quirino Salomone, ho vissuto con lui e con molti altri la costruzione di questa mensa che si è sempre rivolta a tutti. Il povero non è solo l’indigente che non ha da mangiare ma anche colui che si sente solo ed ha la necessità di una parola, di un amico. Così questo luogo ha funzionato dal 2000 sino al 6 aprile. La struttura si è retta con il volontariato, con le cene organizzate dagli amici dello spettacolo, senza alcun finanziamento esterno. Ai politici abbiamo detto: fate largo ai poveri e smettetela di farvi largo con i poveri. Abbiamo dato da mangiare ogni giorno a centinaia di persone in loco e portato un pasto a domicilio per chi non si poteva muovere. Oggi queste persone sono ospitate nelle tende, ma domani? Non hanno più un luogo di ritrovo, un punto di riferimento, amici che possano condividere con loro ansie e preoccupazioni. Ecco perché vogliamo ricostruire la Mensa di Celestino, in qualsiasi luogo dove sarà possibile farlo, proprio con l’intento di ridare un sorriso a persone che già hanno poco o nulla.

In una lettera, qualche giorno dopo il terremoto, padre Quirino Salomone, le ha scritto: «Passato lo stato di emergenza, bisognerà riprovvedere a ripristinare la mensa e il centro mobile di assistenza domiciliare che tanto abbiamo voluto. I nostri poveri ci guardano smarriti. Dobbiamo garantire loro il cibo futuro, materiale e spirituale». Dopo più di un mese, come è la situazione?
Sono molti gli amici che si sono attivati. Siamo in una situazione difficile, anche di crisi economica, quindi il denaro che abbiamo raccolto è ancora poco, ma questo non ci spaventa. Abbiamo preso quello che la gente poteva. Ci metteremo del nostro. La solidarietà si manifesta anche con le azioni di volontariato, presenza e vicinanza. La solidarietà di cui abbiamo tutti bisogno è quella spirituale.
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